a passo d’uomo

 
 
Camminando lungo i portici di Bologna.
Negli orari in cui si fa parte di flussi umani diretti verso il lavoro o verso casa.
Quando il passo ha un ritmo più cadenzato perché, non si sa come, è sempre troppo poco il tempo per arrivare e per tornare.
 
Penso così in queste situazioni a quei video accelerati in cui masse enormi di persone si muovono per le strade, nelle stazioni e a guardarli in questa prospettiva appaiono affascinanti nell’effetto ma pur sempre idioti e insensati.
Poi penso che siamo noi stessi a far parte di questo spettacolo nelle diverse e locali strade e stazioni.
E mi ricatapulto con la consapevolezza qui, per strada, a ritmo di fretta, nella corrida condivisa.
 
Certamente se fosse possibile scegliere nessuno starebbe in questo meccanismo.
C’è così tanta nostalgia di lentezza che i libri sull’argomento si moltiplicano e ottengono un buon successo di pubblico. Segno che il meccanismo della rapidità e dell’efficienza moderna non piace.
Ma si può scegliere uno scenario alternativo?
Probabilmente sì, ma questa è tutta un’altra storia che intreccia una serie di argomenti e di trasformazioni piuttosto complesse che qui non vado a trattare. Per avere comunque qualche spunto vi consiglio di dare un’occhiata a questo libro di Simone Perotti.
 
Tornando ai nostri portici: questo veloce e metaforico passaggio giornaliero, che rappresenta ritmi sostenuti ed estremamente faticosi da sopportare, oltre ad un generale senso di malessere personale, ha delle pesanti conseguenze anche sulle relazioni tra le persone.
Il guaio è che se le persone non funzionano bene nella velocità, le relazioni lo fanno ancora meno.
Oggi ignoriamo l’importanza del tempo necessario per incontrarsi, vedersi come individui e riconoscersi prima di poter fare qualcosa insieme e per farla funzionare almeno decorosamente.
Le relazioni sono vitali per il nostro star bene, sono uno degli aspetti più importanti per la nostra salute eppure rappresentato spesso e volentieri il campo da gioco meno presidiato della nostra vita.
Meno presidiato in termini di tempo, ma anche in termini di competenze, di allenamento, di manutenzione.
 
Qualche esempio?
 
Dai40 agli 80 minuti al giorno il tempo medio trascorso insieme tra genitori e figli non necessariamente facendo qualcosa insieme, stando semplicemente nella stessa stanza.
 
Il tempo medio dedicato agli amici o al partner? Non molto meglio considerando che 20 milioni di italiani dichiarano di essere insoddisfatti del proprio tempo libero, di averne troppo poco.
Diversi studi e ricerche vedono poi un peggioramento delle abilità di vita di base dei giovani tra le quali le abilità interpersonali, di gestione delle emozioni e dei conflitti. Se buttiamo l’occhio sulla situazione degli adulti mani nei capelli. Basta guardare i dati rispetto ai contenziosi, alle separazioni e ai divorzi e in generale al clima di sfiducia se non proprio di paura e diffidenza rispetto al prossimo.
 
Con la crisi degli ultimi anni abbiamo acuito il fenomeno con una maggiore fretta, condita con una maggiore tensione di base: agitare bene prima dell’uso e consumare il cocktail vincente delle relazioni disastrose, quale che sia l’ambito di riferimento.
C’è quasi da sperare di non avere troppo lavoro da fare e che la crisi economica possa portare qualche giornata in più a casa per riposare e stare in relazione almeno coi familiari. A chi è successo non è stata per niente un’esperienza negativa, anzi. Salvo poi ripartire più veloci di prima al primo rinnovato carico merci lavorativo.
 
Rimango spesso stupito dal fatto che tutto sommato riusciamo ad andare avanti lo stesso, un po’ provati dalla vita ma comunque si sta in piedi. D’altro canto non mi capacito che non ci si renda conto che moltissimi dei problemi che sentono le persone dipendono proprio da questo modo di andare avanti. L’associazione manca in modo tanto evidente quanto incredibile.
Perché stringi stringi quello che affermiamo quando parliamo di un problema è che la soluzione passa attraverso del tempo in più da dedicare… ai figli, a se stessi, alla famiglia, al partner, al rapporto coi colleghi, alla condivisione e al confronto, alla conoscenza reciproca, al riconoscersi qualcosa di buono.
Ma visto che il tempo non c’è, visto che si deve marciare, ci piace pensare che la soluzione sia anche un’altra e che le relazioni possano funzionare anche in modalità pit stop. Per poi accorgerci che così proprio non va.
 
E allora mi viene da domandarmi se uno psicologo, cioè chi fa il mio lavoro con la sfida di proporre un modo di stare bene, può decidere di dirlo che le cose stanno così, che il disagio è frutto di un tempo che manca e senza il quale c’è poco da fare. 
Oppure può limitarsi a cercare un modo, chissà quale, di far comunque quadrare il cerchio e se il tempo non c’è pazienza.